La pace: sogno, utopia o progetto

Tre giovani fratelli vicentini di Chiampo in Brasile: Davide, Maria e Riccardo raccontano la loro esperienza

Di Sabrina Germi

 

La storia dell’umanità, nel passato e nella contemporaneità, è trapuntata da conflitti: dall’Ucraina alla Palestina, dal Myanmar allo Yemen, ad oggi sono 161 i paesi nel mondo (le cifre, sempre altissime, oscillano a seconda delle fonti e delle classificazioni) che registrano eventi conflittuali, alcuni a “bassa intensità”, altri ad “alta intensità”.

Non solo la storia delle nazioni vive sui conflitti, ma anche quella degli individui: si inizia alla nascita con il travaglio, la fatica di venire al mondo, e si dispiegano nella vita fino all’ultimo conflitto, l’agonia, quando c’è, dove si combatte l’ultima battaglia tra vita e morte. E in mezzo ci sono i conflitti che accompagnano la vita di tutte le persone.

 

Come prevenire il conflitto?

Molti conflitti insorgono per la difficoltà che abbiamo nel riconoscere la diversità dell’altro: siamo tra uomini simili per molti aspetti, ma al contempo anche “diversamente simili”.

C’è un legame forte tra riconoscimento e identità, perché la seconda è plasmata e strettamente connessa al primo: il misconoscimento si può trasformare in dolorosa ferita capace di paralizzare e bloccare la crescita.

Per prevenire il conflitto è necessario un lavoro preparatorio volto a sviluppare in noi la capacità di riconoscere negli altri la loro unicità, tollerarla, apprezzarla, comprenderla. Noi esistiamo all’interno delle relazioni, e grazie a queste ci riconosciamo nelle somiglianze e nelle diversità, in questo percorso di riconoscimento dell’unicità nostra e dell’altro possiamo aprire la strada per la prevenzione del conflitto e la costruzione della pace.

In questa strada si sono incamminati, tre giovani vicentini di Chiampo: Davide, Maria e Riccardo che hanno scelto di trascorre una parte dell’estate in Brasile per partecipare al Genfest 2024.

 

Che cos’è il Genfest?

Il Genfest è un evento globale, multiculturale e multietnico, con un vasto pluralismo religioso, che ogni 5 anni dal 1970 raduna giovani da tutti gli angoli del pianeta per riflettere insieme su numerose tematiche, guidati da uno spirito di pace e fratellanza. Fu indetto per la prima volta dal Movimento dei Focolari e, visto l’enorme successo, venne ripetuto nel 1975 a Roma. Ha perciò̀ delle forti radici nel cattolicesimo, sebbene sia multireligioso. Quest’anno si è svolto in Brasile, nella località̀ di Aparecida, un comune a circa 180 km da San Paolo. La location tutt’altro che qualsiasi: la Basilica di Nostra Signora di Aparecida, il più̀ importante luogo di preghiera cattolico del Brasile, la più̀ grande chiesa cristiana del continente americano e la più̀ grande al mondo dopo la Basilica di San Pietro in Vaticano.

Juntos para cuidar”, che significa “Insieme per prendersi cura” è il tema che ha riunito giovani provenienti da tutto il mondo, chiamando in causa l’impegno personale di ciascuno, attraverso esperienze di volontariato per mettersi a disposizione delle esigenze del territorio sudamericano. A cui sono seguiti workshop per settori di interesse, incubatori di scambi, idee e proposte, per uno sguardo al dopo-Genfest: come posso portare avanti nella mia realtà ciò che ho imparato qui?

Davide, 27 anni, consulente industriale racconta: “In queste due settimane abbiamo respirato il mondo, in varie sue forme. Abbiamo cominciato conoscendo le persone ai margini della società, un’esperienza che mi ha trasmesso come non mai la consapevolezza che ogni essere umano è capace di generare qualcosa di positivo nel giusto contesto, abbiamo avuto conferma che in tutto quello che viviamo e che vogliamo provare a fare non siamo soli, che non c’è barriera linguistica, culturale all’amore, e quindi alla pace”.

Riccardo, 25 anni, studente all’ultimo anno di Scienze e Tecnologie per l’ambiente all’università di Padova, si racconta: “È stata un’esperienza unica per le forti emozioni vissuti, per l’ambiente e i compagni di viaggio, 4000 persone da tutto il mondo, da oltre 50 Paesi, tutte in uno stesso punto, l’energia che si respirava era elettrica, eravamo tutti lì per lo stesso motivo e ci accomunava lo stesso obbiettivo: la pace e l’unita tra i popoli. Molti ragazzi si sono attivati per fare l’auto-finanziamento per coprire le spese del viaggio e molti i Volontari che ci hanno aiutato nell’organizzazione dei vari momenti, così come tante le lacrime di gioia versate alla fine dell’esperienza, come diceva un vecchio saggio “Non tutte le lacrime sono un male”. Appena arrivati siamo a Sao Paulo ci siamo divisi nelle varie associazioni per cui avevamo espresso una preferenza al momento dell’iscrizione all’evento, la mia in particolare, era la Fazenda de Esperança a Guaratinguetà, centro di recupero per tossicodipendenti molto diffuso in Brasile. Qui ho passato una settimana a conoscere le storie di tante persone che erano in terapia e di quelli che erano lì a fare volontariato insieme a me, una ventina di persone provenienti da Italia, Iraq, Australia, Nuova Zelanda, Nuova Caledonia e Stati Uniti. Alla Fazenda abbiamo conosciuto persone di varie età, che cercavamo di far rifiorire la loro vita, superando dipendenze da droga, all’alcol, gioco d’azzardo e dipendenza dal web, fino a persone che soffrivano di depressione. Ricordo, Bruno, con una dipendenza da crack e 2 figli giunto finalmente al termine del percorso di recupero, che stava riprogettando il suo futuro, come cuoco nella pizzeria di famiglia, oppure Maicol con problemi di dipendenza da alcol e droghe, oltre ad un passato criminale, con tante lacerazioni nel corpo e nell’anima, dovute all’abbandono della famiglia, la perdita di un figlio e un tentato omicidio nei suoi confronti, tutto questo ad appena 26 anni. Nelle comunità che abbiamo visitato ho potuto vivere con loro la spiritualità del Vangelo e ho potuto toccare con mano la forza e l’amore che ne derivano.

Queste storie mi hanno insegnato la riconoscenza alla vita che abbiamo, spesso data per scontata, dal grazie alle persone che ci accompagnano nella vita, al cibo che abbiamo sulla nostra tavola, fino alle confortevoli mura di casa che ci circondano e proteggono”.

Durante il Genfest, racconta Maria, 21 anni studentessa di Lettere Storiche all’università di Verona,abbiamo affrontato il tema della pace nel mondo, abbiamo visto la diversità̀ e la ricchezza delle diverse culture. Ho ascoltato esperienze di giovani che hanno cambiato radicalmente le loro vite, dalla Siria alle Filippine, dalla Repubblica Ceca allo Zimbabwe, dall’Australia all’Argentina, e alla fine dell’evento abbiamo concluso con una marcia per la Pace, con tutte le bandiere del mondo ricordando tutti i conflitti che sono in atto in questo momento sulla Terra e che speriamo possano risolversi al più presto”.

Volontariato, spettacoli di teatro e di musica, workshop, momenti di preghiera e di testimonianze, il Genfest 2024 è stato tutto questo e molto di più: un evento concreto di fraternità universale. Dopo aver ascoltato la cronaca di questi straordinari giorni, in cui questi giovani vicentini hanno respirato il mondo, in varie sue forme, ho rivolto loro alcune domande:

C’è chi suppone, che a non farsi troppo sentire in merito alla pace siano proprio i giovani. Proprio quelli che accorrono sempre numerosi con cartelli e slogan da brandire nelle piazze per tanti altri problemi sociali come il cambiamento climatico, la violenza sulle donne, le ingiustizie. È davvero così? E se sì, perché avviene questo?

Maria: Noi giovani siamo i primi a metterci in gioco cercando di farci sentire su qualsiasi tematica che ci stia a cuore. Solo che ci dividiamo in due grandi gruppi: quelli che protestano tra le strade delle loro città e quelli che si mettono in gioco, facendo qualcosa di concreto, per cambiare le cose. Spesso protestiamo perché́ vogliamo un futuro migliore e vogliamo poter farci sentire da una società̀ che è governata da vecchi, che di conseguenza hanno idee vecchie anche per noi.

Come si può contribuire attivamente e quotidianamente a costruire la pace?

Maria: “Per contribuire quotidianamente alla costruzione della pace bisogna imparare a mettere da parte l’orgoglio e cercare di aiutare il prossimo, diffondendo questa cultura sia a parole, che a fatti”.

Assistere al crescente aumento di conflitti e tensioni globali, può provocare un senso di grande frustrazione. La frustrazione di dover assistere, senza che le proprie azioni possano cambiare le cose. Ma è davvero così?

Maria, Riccardo, Davide: “Crediamo che concretizzando quello che si esprime a parole, le nostre azioni possono cambiare le cose. Questi cambiamenti non sono mai enormi ma si comincia sempre dalle piccole cose, facendo la propria parte nel quotidiano, trattando bene il prossimo che a sua volta può trattare bene il suo prossimo e via dicendo, come una sorta catena, dove il futuro arriva dal presente. Prova a far iniziare ogni giornata con un sorriso, diventerà un sorriso contagioso!”

Come ci insegna la psicologia clinica e come raccontano Riccardo, Maria e Davide l’effetto farfalla nella vita quotidiana, è rappresentativo di un qualsivoglia piccolo cambiamento nelle condizioni iniziali del sistema che conduce a conseguenze su scale più grandi, il cambiamento del singolo può portare al cambiamento del sistema. Come diceva Alessandro Magno: “Molto spesso, dalla condotta di uno solo, dipende il destino di tutti”.  Sono i piccoli gesti che portano alla felicità delle persone, se tutti noi facessimo la nostra piccola, ma significativa parte, il risultato non potrebbe che essere una grande unica azione, che il singolo, da solo, non sarebbe in grado di realizzare. L’effetto farfalla, se inteso come mantra, può aiutarci a non procrastinare, a vivere il presente e a cercare di esprimere noi stessi, per vivere più sereni e non avere rimpianti e, cosa più importante, a muovere i primi passi di un percorso che potrebbe portare a grandi cambiamenti.

 

In che modo voi e i vostri coetanei pensate alla pace?

Maria, Riccardo e Davide: Dipende da persona a persona, c’è chi non ne vuole parlare, perchè significherebbe parlare di tutti i conflitti di cui parlano quotidianamente: televisione, giornali, social, con un senso di negatività che non si vuole avere, dall’altra parte, chi ne parla invece cerca di pensare a soluzioni, perchè il pensiero comune è che la pace è l’unica situazione in cui tutti hanno un beneficio.

 

Com’è possibile, secondo Voi, promuovere la pace in tempo di guerra?

Maria: “La pace si costruisce con il perdono e non con la sete di potere. Finché le persone che hanno il potere non imparano ad essere umili allora è difficile promuoverla. Credo che noi giovani facendo queste esperienze come il Genfest stiamo già̀ promuovendo la pace. Il perdono è l’unico comportamento che può promuovere la pace, perché se qualcuno non perdona nessuna guerra può finire.

È ormai pacifica la convinzione che i conflitti superati portino alla crescita della persona, al tempo stesso torti, ingiustizie, abbandoni, tradimenti, ci fanno star male emotivamente sono come «un coltello affilato che penetra nella carne», possono ferire il cuore, l’orgoglio, l’autostima, la fiducia, l’identità. Rabbia, risentimento, rancore, ma anche dolore, senso di colpa, vergogna e paura si scatenano talvolta in maniera prepotente quando sentiamo di aver vissuto un torto, facendoci precipitare in un abisso emotivo, in cui proprio i nostri tentativi per risalire finiscono per farci sprofondare sempre di più”.

Spesso a ferirci sono genitori, fratelli, figli, partner. La ferita è molto più sensibile, in relazione al tipo di legame affettivo che all’effettivo danno. Ma, ancora, doloresenso di colpa, rimorso, vergogna, paura di soffrire nuovamente, desiderio di vendetta, spesso attanagliano la persona ferita, ma come affermava Francis Bacon un uomo che medita la vendetta mantiene fresche le sue ferite”. Recentemente la psicologia si è focalizzata su una nuova strada, forse meno ovvia, per risolvere i conflitti, anche e soprattutto quelli interiori, e che passa attraverso il perdono, un «balsamo miracoloso» per la loro cura che il mondo scientifico ha riscoperto solo negli ultimi trent’anni. È questo un discorso complesso e di facile fraintendimento, dato che sono parole che appartenevano in passato più al campo della religione, che a quello psicologico. Le ricerche empiriche di questi anni mostrano che la capacità di perdonare, senza nulla togliere alla giustizia e ai ricordi, comporta un lavoro interiore liberatorio: il perdono non in senso buonista, ma più nell’ottica Eriksoniana di saggezza e integrità dell’io. Rabbia, risentimento, rancore sono tra le emozioni che abitano il cuore della persona ferita, emozioni che diventano tossiche più per chi le prova che per la persona a cui sono indirizzate, ossia l’offensore.

Scriveva Nelson Mandela che «Il perdono libera l’anima, rimuove la paura. È per questo che il perdono è un’arma potente». Il perdono è un percorso che obbliga a scendere verso gli inferi del nostro mondo emotivo, per poi gradatamente risalire per osservare la realtà con occhi nuovi e riconciliati, uscendo finalmente «a riveder le stelle», come recita l’ultimo verso dell’Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri. Non ci sono dubbi: perdonare conviene. Ma allora perché è così difficile farlo secondo voi giovani?

Maria, Riccardo e Davide: “Il perdono è l’arma più efficace per sedare i conflitti, è difficile perché magari si è perso troppo in un conflitto, o perché troppo ingabbiati nel rancore, oppure perché si ha paura di risultare deboli. Pensiamo che il perdono sia fondamentale, anche perché se non si è i primi a perdonare nessun conflitto avrà mai fine”.

Tra le spiegazioni che rientrano nella difficoltà a perdonare, c’è anche il bisogno di giustizia, spesso mascherato di desiderio di vendetta, la tendenza a giudicare, ritenere il perdono come atto di debolezza, temere che perdonare debba per forza corrispondere al riconciliarsi. Dal punto di vista psicologico, nel perdono non si scusa il torto, ma ci si libera di tutte le emozioni e i pensieri negativi legati al ricordo di ciò che si è vissuto.

Pratica antichissima e universalmente diffusa, il perdono ha il potere non solo di sanare le ferite emotive, ma anche di migliorare notevolmente la salute fisica e il benessere psicologico, come dimostrano studi medici e psicologici: il perdono migliora il funzionamento del sistema cardiocircolatorio, immunitario, nervoso e, ovviamente, il benessere psicologico. Ma non solo: chi perdona ha relazioni più soddisfacenti con gli altri, maggior produttività sul lavoro e, in generale, una vita più serena e appagante. Purtroppo, però, la via verso il perdono è irta di ostacoli e richiede di disporre di strategie efficaci per superarli, come quelli messi a punto nell’ambito della Psicoterapia Breve Strategica.

Carissimi giovani una grande grazie per queste “perle di saggezza” e di speranza. Ritornando alla nostra domanda iniziale, possiamo rispondere che la pace può essere, ancora oggi, utopia concreta, vita da costruire ogni giorno con l’altro”, chiunque esso sia. L’utopia della pace è nelle nostre mani, è realmente possibile, perché essa dipende dalla “facoltà del possibile” che si trova negli esseri umani, ovvero dalla capacità di ognuno di scegliere il bene contro il male, iniziando da piccole, semplici azioni, come un sorriso!

Fonte: VicenzaPiù

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