In un’epoca di successi confezionati e carriere lampo, vale la pena ricordare quando la musica nasceva da talento autentico e passione sincera. Questa riflessione vuole essere un omaggio a quel mondo perduto — e forse, un invito a ritrovarlo.
Sapete perché un tempo tutto appariva più bello, spontaneo, armonioso?
Perché non esistevano X Factor, Amici di Maria, Ballando con le Stelle e tutti gli altri incubatori di “talenti” costruiti a tavolino. Non c’era l’industria discografica a fabbricare fenomeni destinati a brillare quanto basta per una canzone, una puntata televisiva, una stagione di moda.
In un’epoca ormai lontana, il canto, il ballo, la rivista, il teatro, la musica erano territorio di artisti veri. Talenti naturali, selezionati giorno dopo giorno da un unico, insindacabile giudice: il pubblico, senza mediazioni interessate, senza strategie di marketing.
Oggi, invece, il criterio è chiaro: obbedire alle linee guida delle case discografiche, delle agenzie pubblicitarie e delle televisioni commerciali, nelle mani di poche decine di manager dello spettacolo. È il mercato, più che il talento, a decretare chi sale sul palco.
In questo nuovo contesto dominato dalle logiche di mercato, anche artisti come Rosa Chemical, Fedez, Big Mama, Achille Lauro, Elodie, Mango sono diventati protagonisti: interpreti che, seppur bravi e godendo di ampio successo, faticano a ricongiungersi all’idea tradizionale di M.U.S.I.C.A. che abbiamo nel cuore.
E per adattarsi ai tempi, ecco che il mercato della musica si è inventato una forma canora più accessibile a tutti — anche a chi stona come una campana — chiamata “rap”, una cantilena ripetitiva che, più che musica, sembra riempire il vuoto di idee melodiche.
Jovanotti, pioniere di una nuova modalità espressiva, ha sempre puntato su testi “poetici”, “green”, “pacifisti”, “spirituali”, forse per costruire un ponte comunicativo laddove la musica tradizionale richiedeva una diversa profondità compositiva.
Se questi componimenti avessero trovato spazio nella poesia, forse avrebbero avuto una loro dignità. Ma con la poesia, si sa, non si riempiono gli stadi.
Ed ecco allora che, a ritmo di zungt-zu, zungt-zu, ripetuto come un metronomo impazzito, si confeziona uno spettacolo in cui pubblico e performer si fondono in un’orgia di generi, sudori, afrori, umori e rumori.
Il risultato? È servito, e somiglia ben poco a quella M.U.S.I.C.A. che una volta parlava all’anima.
Forse la vera sfida non è fermare il tempo, ma riscoprire la forza delle emozioni genuine in un mondo che sembra aver smarrito il senso profondo della M.U.S.I.C.A.
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